Preesistenze, determinazione del pregiudizio risarcibile, ruolo del medico legale: la Suprema Corte fissa i paletti in tema di concorso di cause e aggravamento del danno

di Marco Azzalini -

CASS., CIV., III sez., 11 novembre 2019, n. 28986

Preesistenze, determinazione del pregiudizio risarcibile, ruolo del medico legale: la Suprema Corte fissa i paletti in tema di concorso di cause e aggravamento del danno.

La Corte di Cassazione, con la sentenza 28986/19, interviene nel mettere nuovamente a fuoco, in primo luogo, i criteri per l’accertamento e la quantificazione del risarcimento del danno in presenza di una lesione preesistente che sia stata seguita da un ulteriore evento lesivo, in una prospettiva volta alla corretta soluzione giuridica da applicare in caso di aggravamento di preesistenti postumi dannosi. In secondo luogo la Corte puntualizza la latitudine del campo d’azione del medico legale rispetto agli accertamenti de quibus.

Quanto al primo tema, la Corte distingue, in chiave ricostruttiva del sistema, tra l’imputazione causale dell’evento di danno e la successiva indagine volta all’individuazione e quantificazione delle singole conseguenze pregiudizievoli: sul primo versante il riferimento normativo sarebbe agli artt. 40 e 41 c.p. e sul secondo all’art. 1223 c.c.

L’accertamento del nesso di causalità materiale, criterio oggettivo di imputazione della responsabilità del fatto volto a stabilire, per l’appunto, se vi sia responsabilità e a chi vada ascritta, deve essere compiuto tenendo conto degli artt. 40 e 41 c.p., e dunque, ad avviso della Corte, non sarebbe possibile una sorta di frazionamento del nesso in questione, tale da determinare una riduzione della responsabilità del danneggiante, a causa, ad esempio, della minore incidenza dell’apporto della sua condotta rispetto ad un concorrente fatto naturale. Vi sarebbero, quindi, solo due alternative: o la causa naturale è tale da escludere il nesso causale materiale tra condotta censurata ed evento, e allora la responsabilità dell’agente va esclusa; oppure la causa naturale ha solo concorso all’evento, e allora la responsabilità dello stesso va ascritta in toto all’agente.

L’accertamento del nesso di causalità giuridica, invece, è volto a stabilire il perimetro delle conseguenze dannose risarcibili dell’evento, e serve quindi a determinare la misura del risarcimento stesso. Tale nesso deve essere accertato secondo il cosiddetto metodo della prognosi postuma, vale a dire in base ad un giudizio controfattuale ex art. 1223 c.c., andando a valutare come si sarebbero atteggiate le cose laddove l’evento non si fosse verificato.

In tale quadro, e venendo allo specifico problema oggetto della pronuncia,  la distinzione tra causalità materiale e giuridica imporrebbe di considerare se la preesistenza di malattie o menomazioni in capo alla vittima del fatto illecito incida sul primo o sul secondo dei due nessi causali, essendo entrambe le ipotesi astrattamente prospettabili. L’invalidità o la malattia pregresse, infatti, possono teoricamente costituire tanto una concausa di lesione (ad es. il responsabile infligge un lieve urto, altrimenti innocuo, a persona affetta da osteogenesi imperfetta o sindrome di Lobstein, provocandole gravi fratture) quanto una concausa di menomazione (ad es. il responsabile provoca l’amputazione della mano destra a chi aveva già perduto l’uso della sinistra). Le preesistenze, dunque, sono da considerare come circostanze che pongono, sostanzialmente, un problema ermeneutico-ricostruttivo avente a che fare con le due causalità: le medesime rileverebbero infatti sul piano della causalità materiale se dovessero rappresentare una concausa della lesione, mentre rileverebbero sul piano della causalità giuridica laddove si traducessero in concausa di menomazione.

In considerazione di tale schema, la Corte prospetta un’alternativa tra due scenari: quello in cui le “forzose rinunce” patite dal soggetto leso sarebbero state le medesime anche laddove questi si fosse trovato pienamente integro prima del fatto lesivo, nel qual caso non sarebbe da riconoscere alla preesistenza alcuna rilevanza giuridica; oppure quello in cui la preesiste condizione di menomazione abbia aggravato le conseguenze dannose.

Per quest’ultimo caso, quello cioè dell’aggravamento dei c.d. “postumi permanenti” preesistenti, la Corte fissa due coordinate di giudizio. Per un verso, in ordine al criterio di accertamento del danno, si afferma che le preesistenze non debbono incidere sulla determinazione della percentuale di invalidità permanente, da determinarsi sempre e comunque in base all’invalidità riscontrabile concretamente e complessivamente. Per altro verso, con riferimento invece alla liquidazione del danno, occorre quantificare l’invalidità accertata e quella ipotizzabile in assenza della condotta censurata, operando poi una sottrazione tra l’una e l’altra.

Quanto poi all’ambito operativo del medico legale, la Corte, riaffermando, conformemente alla ricostruzione operata, che il tema della causalità giuridica ricomprende in sé quello della determinazione del perimetro dei danni risarcibili, e premessa una riflessione anche di matrice sistematica sull’origine e la ratio del danno alla salute, conclude nel senso che il relativo accertamento spetti esclusivamente al Giudice; rispetto alla questione delle preesistenze, quindi, il medico legale sarebbe chiamato, in pratica, a valutare, senza correttivi e senza applicazione di formule proporzionali, il grado di invalidità del soggetto leso e a indicare la percentuale di invalidità permanente sussistente in capo a questi prima del fatto lesivo, mettendo poi tali dati a disposizione del Giudice.

In definitiva, sarà poi il Giudice ad affrontare, sulla base dei segnalati principi, anche la questione della liquidazione del danno, applicando il criterio di causalità giuridica, coniugato con il principio della preponderanza (più probabile che non) sul piano probatorio, così da estromettere, da un lato, dal novero delle conseguenze dannose quelle preesistenti al fatto lesivo e da garantire, dall’altro, un risarcimento del danno rispettoso dei principi di integralità e proporzionalità. Conformemente a tale dichiarato obiettivo,

comprensibilmente la Corte rimarca, da ultimo, la possibilità del ricorso all’art. 1226 c.c. laddove si renda necessario evitare esiti insoddisfacenti o addirittura paradossali conseguenti ad applicazioni troppo rigide dei criteri individuati nella pronuncia in questione.

MARCO AZZALINI

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