Profili causali della responsabilità del chirurgo plastico: un’interessante pronuncia del Tribunale di Taranto
di Stefano Corso -
Con sentenza del 10 maggio 2019 il Tribunale di Taranto ha avuto modo di affrontare svariati profili attinenti alla responsabilità medica e, nel dettaglio, alla responsabilità del chirurgo plastico (con riguardo a peculiari aspetti della responsabilità del chirurgo estetico, distinta da quella del chirurgo plastico, sia concesso il rimando a Corso, La responsabilità del chirurgo estetico tra salute e bellezza, in questa Rivista, 2018, 411 ss.).
Nel caso di specie, una donna, dopo la comparsa di inestetismi a livello dell’addome successiva alla prima gravidanza, si rivolgeva a un chirurgo plastico, che le diagnosticava la ricorrenza di un addome pendulo con diastasi dei sottostanti muscoli addominali e le prospettava la possibilità di trattare il suddetto deficit estetico con un intervento chirurgico. La paziente, ricoverata poi presso una struttura privata, era sottoposta ad addominoplastica con liposcultura. Tuttavia, conseguentemente al suddetto intervento residuavano inestetismi cutanei, sostanzialmente legati ad un anomalo dismorfismo della cicatrice chirurgica sovrapubica. A seguito dell’esperimento dell’azione per il recupero del credito relativo all’operazione effettuata da parte dello studio medico, la paziente convenuta spiegava domanda riconvenzionale di risarcimento del danno subito.
Esaminando l’operato dei sanitari, il giudice considera in primo luogo l’acquisizione del consenso informato.
Dopo aver richiamato il rilievo del c.t.u. per cui le caratteristiche della cicatrice possono definirsi risultati anomali ma solitamente previsti dell’addominoplastica che comportano un esito esteticamente negativo dell’intervento risolvibile mediante un altro trattamento chirurgico, evidenzia che il modulo del consenso informato presente nella cartella clinica della Casa di cura non risulta sufficientemente completo e specifico, essendo ivi assente qualsiasi riferimento alle complicanze proprie della suddetta procedura, ovvero a tutti gli esiti possibili, tra cui gli inestetismi cicatriziali, perciò l’informazione così ricevuta dalla paziente non può dirsi tale da consentirle di maturare una decisione libera e consapevole ed esprimere un valido consenso. Prosegue però ritenendo superata questa mancanza in virtù di un ulteriore documento informativo sottoscritto, più completo ed esaustivo sull’addominoplastica e sulla liposcultura.
È appena il caso qui di rammentare che, secondo la giurisprudenza, non è necessario che il consenso sia espresso in forma scritta, essendo valido anche il consenso orale (Cass., 31.3.2015, n. 6439, in Foro it., 2015, 11, I, 3659, con nota di Farace; Trib. Milano, 25.11.2005, in Foro ambrosiano, 2005, 406); mentre la sola sottoscrizione di un modulo apposito non sostituisce l’informazione che deve rendere il medico né può bastare a dimostrare l’esistenza di un consenso valido. «Non adempie all’obbligo di fornire un valido ed esaustivo consenso informato il medico il quale ritenga di sottoporre al paziente, perché lo sottoscriva, un modulo del tutto generico, da cui non sia possibile desumere con certezza che il paziente medesimo abbia ottenuto in modo esaustivo le suddette informazioni» (Cass., 4.2.2016, n. 2177, in DeJure).
Circa il nesso di causalità tra il danno estetico lamentato e l’operazione svolta, la consulenza tecnica d’ufficio ha concluso per la sua sussistenza, indipendentemente dal fatto che l’intervento sia stato eseguito correttamente sul piano tecnico: l’inestetismo cioè è derivato oggettivamente dal compimento dell’intervento. Per il Tribunale, nel caso in esame non è possibile apprezzare concretamente il corretto operato dei medici, i quali, a fronte della dimostrazione del risultato estetico peggiorativo conseguito all’esito dell’intervento chirurgico, non hanno fornito prove adeguate del loro esatto adempimento. Del resto, dalla lettura della cartella clinica non si è potuto evincere il tipo di tecnica chirurgica utilizzata, lacuna che di fatto rende impossibile qualsiasi valutazione specifica circa la correttezza del disegno pre-operatorio e delle linee di incisione praticate; né si è rinvenuta allegata alla cartella clinica documentazione fotografica utile per un confronto pre e post-operatorio (con riguardo alle problematiche connesse alla cartella clinica, anche di ordine probatorio, sia consentito di richiamare Corso, Salute e riserbo del paziente: questioni aperte in tema di cartella clinica, in questa Rivista, 2017, 395 ss.).
In merito alla prova del nesso di causalità, il giudice svolge alcune riflessioni di sistema.
Posto che per la giurisprudenza consolidata è onere del danneggiato, creditore, provare l’elemento oggettivo dell’illecito, in particolare il nesso eziologico, far gravare «in capo al paziente il compito di provare che il danno lamentato sia conseguenza di una malpractice medica – scrive – equivarrebbe a chiedergli di individuare e puntualmente dimostrare un inesatto adempimento del medico-debitore, oltre che il legame eziologico tra questo e i pregiudizi di cui invoca ristoro. Al contrario, si ritiene che il paziente, agendo in giudizio per ottenere il risarcimento dei danni riportati a causa di una prestazione sanitaria non conforme alle leges artis, avrà sempre l’onere, secondo i principi generali cristallizzati nel 2001 dalle Sezioni Unite, di fornire la prova della fonte negoziale o legale del suo diritto e del nesso causale tra i danni lamentati e il trattamento medico ricevuto, individuato in chiave neutra quale effettivo momento di insorgenza della patologia denunciata; per il resto potrà limitarsi ad allegare l’inesattezza dell’adempimento del medico per mancata osservanza degli obblighi di diligenza professionale. Graverà, invece, sul medico convenuto ogni onere di dimostrare il proprio esatto adempimento, e dunque di aver agito nel rispetto delle leges artis in materia».
In altri termini, si deve evitare che la sfumatura terminologica del nesso di causalità relativa all’accezione di legame causale come rapporto tra il danno lamentato dal paziente e la condotta sanitaria negligente determini un aggravamento del fardello probatorio del paziente danneggiato stesso.
Il riferimento logico giurisprudenziale è alla sentenza n. 13533 del 2001 delle Sezioni Unite della Cassazione, secondo cui «il creditore che agisca in giudizio per l’inesatto adempimento del debitore deve solo fornire la prova della fonte negoziale o legale del suo diritto, limitandosi ad allegare l’inesattezza dell’adempimento costituita dalla violazione dei doveri accessori, dalla mancata osservanza dell’obbligo di diligenza o dalle difformità qualitative o quantitative dei beni, posto che incombe sul debitore convenuto l’onere di dimostrare l’avvenuto esatto adempimento dell’obbligazione».
In relazione alla quantificazione del danno, atteso che, come sottolineato dal c.t.u., le cicatrici derivanti da interventi di questo tipo sono sempre successivamente migliorabili con una revisione chirurgica che ne permetta il “ritocco”, il giudice fa applicazione della norma sancita al secondo comma dell’art. 1227 c.c., riconoscendo alla danneggiata «le sole somme necessarie a far fronte al nuovo intervento di chirurgica plastica correttiva, sufficienti a eliminare ogni inestetismo peggiorativo: queste devono stimarsi ad oggi, in via equitativa, nella misura complessiva di € 12.000,00, idonea a ricomprendere i costi di una sala chirurgica ospedaliera (circa € 3.000,00), quelli relativi al compenso spettante al chirurgo plastico (circa € 6.000,00), nonché il ristoro per un ulteriore inatteso periodo di inabilità temporanea connesso alle fasi operatoria e post-operatoria cui dovrà sottoporsi la paziente».
Non può essere accolta invece la domanda di restituzione delle spese già sostenute e corrisposte allo studio medico, dal momento che non è stata richiesta la dichiarazione di nullità né l’annullamento del contratto avente ad oggetto la prestazione sanitaria. Per lo stesso motivo, continuando a valere la fonte negoziale dell’obbligazione, la paziente deve pagare il saldo residuo.
Giova osservare che il Tribunale reputa sussistente la qualifica di consumatore in capo alla paziente che ha concluso il suddetto contratto con lo studio medico e, in applicazione della disciplina consumeristica, dichiara la nullità dell’accordo arbitrale sottoscritto dalle parti.
La prova dell’esistenza della specifica trattativa tra professionista e consumatore «costituisce onere preliminare a carico del professionista che intenda avvalersi della clausola arbitrale in quanto rappresenta un antecedente logico rispetto alla dimostrazione della natura non vessatoria di siffatta clausola: nel caso in esame, il convenuto Studio medico non ha allegato né dimostrato lo svolgersi di alcuna trattativa tra le parti in merito alla deroga alla competenza dell’autorità giudiziaria, lacuna che rende inesorabilmente operante ed effettiva la presunzione di vessatorietà di cui all’art. 33 cod. cons.».
Pertanto la paziente è condannata al pagamento della somma di 1.100,00 euro, a titolo di saldo del prezzo quale corrispettivo pattuito per la prestazione sanitaria, e i medici sono condannati al pagamento della somma complessiva di 12.000,00 euro, a titolo di risarcimento del danno.
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